Statuto del Castello di Ficulle del 1534
Rubrica XIII, del Consiglio da farsi per le Vendemmie
“Il Podestà che per il tempo sarà nel Castello di Ficulle sia tenuto et debba sotto vinculo di giuramento et a pena di cinque libre in Kalende del mese di ottobre o in anzi secondo meglio gli parrà di fare consiglio generale, et proporre delle vendemmie da farsi”
In principio furono gli etruschi. Salirono su queste colline forse tra il VII e il VI secolo a.C. e, strapponando terre da coltivare alle foreste, ne svelarono la vocazione agricola. Inoltre scavarono, come erano soliti fare, grotte e cunicoli che ancora oggi attraversano il sottosuolo del borgo. Infine, lasciarono disseminate per la campagna tombe isolate cariche di vasellane, scoperte (e purtroppo ricoperte) nell’Ottocento da sedicenti archeologi.
La conversione agricola delle selve continuò con i romani che allestirono su queste terre “aziende” di produzione agricola, dette “villae rusticae”. Al tempo, il Chiani, oggi poco più che un torrente, aveva ben altre portate. Era, il “Clanis”, un fiume poderoso che collegava, tramite un ingegnoso sistema di chiuse, l’Etruria meridionale con Roma, consentendo commerci e scambi.
Passati i romani, si prese a chiamare questo posto “Figulus” – da cui Ficulle – forse per via di piante di fico in bella evidenza o, cosa più probabile, per via di una consolidata industria di stoviglie di terracotta. “Figulus”, infatti, sta per “vasaio” e questa tradizione antica è giunta fino a noi con tutto il corollario di “panate” e “bicchieri” riservati al vino e ancor oggi utilizzate dalle osterie più filologicamente attrezzate.
Poi venne il Medioevo. Anzi, i due Medioevo. Quello fantastico, impresso sulla pellicola da Mario Monicelli (L’Armata Brancaleone, 1967), racconta di un certo Groppone da Figulle, “lo più grande capitan di Tuscia”, tagliato in due da Brancalone da Norcia con un solo colpo d’ascia. Quello vero, storico, rappresentato dal monaco Graziano. fondatore, con il suo “Decretum Gratianii” del diritto canonico, “spirito sapiente” collocato da Dante nel X canto del Paradiso.
Etruschi e Romani avevano lasciato sul campo (è proprio il caso di dirlo) i resti di una fiorente viticoltura che mai fu dimenticata. Crebbe, anzi, d’importanza, fino a collocarsi tra gli articoli dello Statuto del Castello di Ficulle (XVI sec.) nei quali si vincola la vendemmia alla deliberazione del Consiglio Generale, riservando ai contravventori multe salate. Tra i lasciti più considerevoli degli etruschi, la tecnica della vite maritata (con lo “stucchio”, vale a dire l’olmo), prevalente fino a cinquant’anni fa, ora sostituita da sistemi di allevamento richiesta da una viticoltura che si è fatta specializzata.
In tempi ancora più recenti, queste zone sono state investite da un rinascimento vinicolo che ha restituito a Ficulle un primato, in fatto di vino, pure attestato dai catasti orvietani della fine del XIII sec. Nomi e marchi prestigiosi della vitivinicoltura hanno trasformato luoghi dimenticati in straordinari “domaines”, mettendo a dimora varietà – Chardonnay, Cabernet, Merlot e Pinot – che hanno restituito risultati esuberanti. Un pezzo di Francia coabita felicemente con gli storici vigneti a Sangiovese, Montepulciano, Grechetto e Procanico. E non di rado capita di scoprire accoppiamenti giudiziosi che fanno vibrare di gioia vignaioli ed enofili.
Oggi Ficulle è tutto questo. Intrecci di storie, radici, lingue. Da ritrovare nei suoi vini.